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Bagna caoda 2022

Anche quest’anno, nella settimana dopo San Martino (11 novembre), Chez Nadi ripropone la serata della Bagna Caoda.

Per accontentare gli amici “vampiri” abbiamo studiato una versione senza aglio perché obiettivamente l’aglio è un elemento divisivo: o lo si ama, magari anche tollerando la difficile digeribilità e la tangibile capacità di trasudare da ogni poro per giorni, o lo si odia senza possibilità di appello.

La serata bagna caoda è una festa, quasi rituale, che si ripete ogni anno da noi, ampiamente antecedente la nascita dell’evento Bagna Cauda Day, e ormai si è imposta nell’immaginario degli appassionati, tanto da generare liste di attesa.

Nel periodo successivo è possibile trovare in negozio vasetti del prezioso intingolo da gestire in autonomia per prolungare il piacere di gustare, anche in modo informale e casalingo, questa specialità dalle radici antiche, legate al mondo contadino e ai ritmi della stagione.

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Bagna caoda

I crismi della tradizione

Il pentolino della bagna caoda, il diàn, deve essere “collettivo”, uso di diàn individuali snatura questo rito conviviale e festoso, ma non festivo, di celebrazione della fine di intesi lavori agricoli (la vendemmia per esempio), ricementatore di amicizie trascurate per il troppo lavoro, bisboccia tra amici durante le lunghe serate autunnali ed invernali.

È vietato fare “palòt”, usare le verdure come “pala” per raccogliere dal fondo la parte piu densa e ricca di ingredienti della salsa, l’egoismo è fuori luogo, non esistono regole di precedenza: allegra confusione è d’obbiigo.

Per accompagnare le verdure intinte e sgocciolanti ci si aiuta con pezzi di pane artigianale. Le verdure devono essere pronte all’uso, pulite e ridotte a porzione: irrinunciabili i cardi gobbi di Nizza Monferrato e i peperoni quadrati di Asti, crudi i primi, crudi cotti e spellati i secondi, poi topinambur, verza, indivia, cipollotti freschi tenuti a bagno nel Barbera, tutti rigorosamente crudi; cipolle cotte al forno, rape e patate lessate.

Proibite le verdure aromatiche come sedano o finocchio. Per finire si rompe qualche uovo nell’ultimo condimento, ci si ristora con una tazza di brodo di manzo e si conclude con un pezzo di formaggio piemontese e uno zabaione.

I vini consigliati, in successione: prima una barbera dell’anno, vinosa e fresca, poi ancora barbera matura, per finire moscato.

La nostra tradizione

Fin dall’anno dell’apertura di Chez Nadi, novembre significa bagna caoda. Era già per noi un evento annuale anche prima, veniva però programmato in altri momenti, per consentire agli amici produttori di vino di parteciparvi.

Per un periodo ha rappresentato il pranzo degli auguri di Natale della condotta Slow Food Vigevano e Lomellina e si svolgeva la domenica antecedente la festività.

Nel tempo l’appuntamento si è stabilizzato nella settimana dopo San Martino (11 novembre), poiché gran parte degli ingredienti necessari alla sua preparazione sono disponibili a due manifestazioni che si svolgono a Cervere e Cherasco intorno a quella data.

La ricetta è quella di Giovanni Goria, noto gastronomo piemontese, delegato dell’accademia della cucina italiana di Asti per trent’anni.

Per accontentare gli amici “vampiri” abbiamo studiato una versione senza aglio perché obiettivamente l’aglio è un elemento divisivo: o lo si ama, magari anche tollerando la difficile digeribilità e la tangibile capacità di trasudare da ogni poro per giorni, o lo si odia senza possibilità di appello.

La serata bagna caoda è una festa, quasi rituale, che si ripete ogni anno da noi, ampiamente antecedente la nascita dell’evento Bagna Cauda Day, e ormai si è imposta nell’immaginario degli appassionati, tanto da generare liste di attesa.

Nel periodo successivo è possibile trovare in negozio vasetti del prezioso intingolo da gestire in autonomia per prolungare il piacere di gustare, anche in modo informale e casalingo, questa specialità dalle radici antiche, legate al mondo contadino e ai ritmi della stagione.

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Il cibo buono e i suoi custodi

Lunedì 3 maggio alle 21:00, con Piera del Selvatico e le condotte Slow Food dell’Oltrepò e di Vigevano e Lomellina, Nadia discorrerà di cibo buono. Per assistere, è possibile seguire la diretta FaceBook sulla pagina facebook di ciascuna condotta.

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Asparago rosa di Cilavegna

È iniziata in questi giorni la raccolta degli asparagi rosa di Cilavegna DeCo, da giovedì 15 aprile saranno disponibili in negozio al naturale e declinati in varie preparazioni gastronomiche. Come ogni anno ci prestiamo come punto d’appoggio per la commercializzazione di questo prodotto del territorio, eccellenza inserita nell’Arca del gusto, in collaborazione con il consorzio Conpac e la condotta Slow Food Vigevano e Lomellina. Ha un gusto suo tipico, un poco retró, al quale forse non siamo più abituati, intenso, minerale tendente all’amaro che a me personalmente riporta all’infanzia. E proprio come da bambina il primo piatto che mi piace cucinare alla prima comparsa di questo ortaggio è l’asparagiata. Preparo gli asparagi raschiando con il pelapatate la parte bassa ed eliminando con un taglio i primi centimetri. Li cuocio a vapore per 10 / 12 minuti, controllando la cottura poco sotto al livello della punta, dove cambiano colore. Devono essere appena teneri. Nel frattempo metto abbondante, ottimo burro di centrifuga in una padella antiaderente, lo cuocio per farlo spumeggiare, lo salo e ci rompo dentro uova quanto più fresche riesco a trovare. Lascio rapprendere il bianco dell’uovo e lo giro con una paletta senza rompere il tuorlo. Metto gli asparagi caldi in un piatto caldo con le punte tutte rivolte da un lato, appoggio sopra di esse l’uovo rigirato di nuovo, irroro con il burro e cospargo con abbondante, ottimo Parmigiano Reggiano DOP. Tengo gli asparagi per il gambo e li intingolo nel tuorlo liquido, mordo la punta e poi sfilo il possibile dal primo pezzo del gambo sotto di essa e poco più. Gli asparagi di Cilavegna danno il meglio di sé nei primi centimetri: con tre punte e poche rondelle faccio risotto per una persona. Non uso i gambi che scarto per fare il brodo vegetale, esalterei solo l’amaro degli stessi, bastano le sole punte per dare sapore a zuppe, sughi e risotto.

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Beato Matteo

Anni ’60, si avvicina la ricorrenza del Beato, protettore della città. Le giostre sono piazzate nello spazio ora occupato dal parco Parri con pozzanghere da fare invidia all’attuale laghetto se il tempo come al solito si è guastato dopo aver lasciato festeggiare l’oca ai mortaresi: non importa che tempo abbia fatto prima, dopo il Beato Matteo sui letti compaiono gioco forza le coperte di lana.

Ogni famiglia si prepara a ricevere ed ospitare amici e parenti di fuori soprattutto, le tavolate sono numerose, le incombenze domestiche altrettanto. Bisogna “vestirsi di nuovo” per la messa della domenica, bisogna preparare per le persone che si sono invitate, siamo in pieno boom economico: la tavola rispecchia l’abbondanza da poco assaporata.

Per un pranzo tipo dobbiamo prevedere: antipasto con ricco vassoio personale riempito con cura dal salumiere di fiducia con tutte le varietà di salumi cotti e crudi, salame sotto grasso, carciofini, chiodini sott’olio, acciughe e sardine, insalata russa, antipasto rosso (vedi ricetta) e patè in gelatina (Milano insegna). Segue la “rustida” che ha fatto da base per il successivo risotto: carne di maiale a fette sottili con salsiccia e fegato sempre di maiale con cipolla e pomodoro. Poi risotto appunto cotto nel sugo della medesima, poi brodo prodotto per il risotto magari arricchito da ravioli (più frequentemente riservati al pasto serale o del lunedì), lesso e gallina ripiena, poi gli arrosti, vitello o anche fagiano per le famiglie dei cacciatori, brasato e almeno due contorni uno cotto e uno crudo, bagnetto profumato di estate e del proprio orto.

Come formaggio la tachella con la mostarda, comprate entrambe “sciolte” sempre dal salumiere (il supermercato è di là da venire). Dolce finale con il cabaret di paste comprato all’uscita della messa, col torrone rigorosamente Sebaste Gallo d’Alba e la torta fatta in casa (la “varulà o marmo dolce o bianca e nera per intenderci). Il vino è quello di tutti i giorni; concessione finale di vermouth da meditazione.

Menù certo affascinante ma forse improponibile ai nostri giorni, a meno di non farne una rivisitazione drastica in termini di quantità di grassi soprattutto. Certo è che poco di questa tradizione è rimasto sulle tavole dei vigevanesi di oggi. Chi ha intorno ai trent’anni e produce da sè ravioli fatti in casa? Chi è in grado di fare sempre in casa un’insalata russa? Intendo manufacendo anche la maionese? Si acquistano già pronte persino le verdure per i contorni, figuriamoci gli arrosti!

Passando attraverso gli anni settanta con le varianti vegetariane, gli anni ottanta con la celebrazione della cucina alternativa, gli anni novanta con il culto del tutto pronto, le tradizioni culinarie si sono come dileguate. Oggi un menù tipo rifugge certamente i salumi, troppo demonizzati e troppo presenti sulle tavole in forme snaturate come i preaffettati in busta hanno più ogni altra cosa fatto il loro tempo per la maggior parte delle persone, anche se andrebbero rivalutati nelle loro espressioni migliori, pretendendo sempre una qualità eccelsa che c’è e vale la pena di cercare e di pagare il giusto.

L’antipasto potrebbe quindi essere rappresentato da una torta salata naturalmente prodotta con pasta sfoglia surgelata o al massimo conservata in atmosfera modificata, manco a pensare di fare una semplice crosta di farina, acqua e olio extra vergine di oliva, migliore, più economica e nutrizionalmente perfetta oltre che filologicamente più appropriata. Seguita da un primo al forno, potrebbe essere una lasagna classicamente prodotta se siamo fortunati da un negozio di pasta fresca o da qualche artigiano locale, o dei cannelloni o delle crepes, suggestione anni ottanta che dura a morire.

Come secondo, un arrosto arrotolato attinto dal bancone di un supermercato già legato con gli aromi inclusi (alzi la mano chi sa legare un arrosto) oppure per i più abbienti un volatile ripieno già arrostito dalla polleria. In tempi di HACCP la mostarda sfusa ha il sapore dell’alcol dei tempi del proibizionismo e la tachella si vende anche nei negozi solo confezionata in squadrati cubetti da 100 o 250 grammi, 500 grammi nei supermercati alla faccia dei single.

Sopravvive il banco del torrone alla fiera quasi immutato in quarant’anni, possiamo ancora tuffarci in quel sapore per rivivere un po’ d’antan. Se sapete fare una torta in casa – senza ricorrere alla magia 9 torte – fatela per piacere, non è poi così proibitiva, se anche saltate la messa potete acquistare i pasticcini senza neanche fare la coda che inevitabilmente si formava allora, riscattate con la scelta di vini adeguata alle vostre nuove competenze enologiche il tenore del vostro pranzo e lasciate perdere il vermouth a favore di un bicchierino di marsala metodo soleras che accompagnerà degnamente il vostro dolce.

Spero che questa mia provocazione induca più d’uno a mettere mano al menù della festa del Beato Matteo, che lo programmi e lo progetti con cura, con un occhio alla tradizione ed uno alla leggerezza, con l’accortezza di scegliere solo materie prime di altissima e riconosciuta qualità, pensando che comunque chi più spende meno spende, nulla è troppo per il nostro benessere, siamo quello che mangiamo, vogliamo essere una torta salata dal ripieno schizofrenico o una fetta di culatello?

Antipasto rosso

  • 300 g di giardiniera di verdure miste ridotta a cubetti
  • 200 g tonno sott’olio
  • 2 cucchiai di doppio concentrato di pomodoro
  • 1 bustina di droghe miste (tipo Saporita Bertolini)
  • Olio extra vergine di oliva quanto basta

Mescolare tutti gli ingredienti il giorno prima e gustare in accompagnamento ai salumi.

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La burtleina

Ricordo mia nonna che, per fare la burtleina, impastava un pugno di farina con un uovo, un pizzico di sale e del latte fino ad ottenere una pastella fluida. Metteva sul fornello una padella con olio e vi colava dentro quest’impasto che si distribuiva uniformemente da solo coprendone l’intero fondo, friggendo ai lati fino a imbiondire. A quel punto la girava, aiutandosi con due forchette, la faceva dorare anche all’altro lato, e pochi minuti dopo la scolava dall’unto in eccesso e la metteva in tavola. Per accompagnare fette di coppa, tagliate con la “coltella” o il formaggio che lei stessa preparava, quello meno stagionato, più morbido.

Da piccina ho trascorso un intero inverno ospite dei miei nonni materni a Campostrino di Rustigazzo, in Val d’Arda, provincia di Piacenza. Ricordo che la nonna panificava ogni quindici giorni, producendo una decina di “micche” alla volta. Il giorno in cui le faceva si mangiava il “chisolino”, una pagnotta che appiattiva e cuoceva sul davanti del forno. Quando lo apriva la prima volta per controllare e girare il pane, sfornava quella specie di focaccia che, essendo più bassa, era già cotta ed era la prima ad essere gustata. Le micche venivano conservate in un cesto di vimini, protette da una tovaglia e consumate giorno per giorno, via via sempre più dure.

Quando si avvicinava la data della successiva panificazione, il pane si poteva mangiare solo a quadrotti nel caffelatte della colazione, oppure a fette, bagnato nell’acqua e abbrustolito sulla piastra della stufa a legna o ancora nel brodo, bollito fino a diventare una pappa. In alternativa, la nonna preparava la burtleina, che sostituiva appunto il pane.

Spesso la ripropongo in accompagnamento a salumi piacentini o formaggio fresco tipo robiola o crescenza; ha il sapore dell’infanzia, delle radici, della mia nonna.

Salumi piacentini con burtleina e verdure
Salumi piacentini con burtleina e verdure
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Le nostre crostate

Immancabili in apertura della lista dei dolci troviamo “le nostre crostate”, un classico tra i prodotti disponibili anche al banco in salumeria. Un dolce “da credenza”, così definito poiché può essere conservato a temperatura ambiente, semplicemente appoggiato appunto sulla credenza, magari coperto da una campana in vetro che faccia bella mostra della torta proteggendola dall’ambiente esterno.

Le ricette delle nostre crostate sono state messe a punto negli anni ottanta del secolo scorso. Attraverso prove di calibratura degli ingredienti ed assaggi comparati, avendo in mente un ideale palatabilità le abbiamo rese burrose, equilibrate nella dolcezza e friabili.

Gli ingredienti nel tempo selezionati sono i classici della ricetta:

  • farina tipo 0 macinata a pietra;
  • burro di panna fresca di centrifuga;
  • zucchero semolato;
  • uova;
  • vaniglia ( in pasta, come estratto o semi ricavati dalla bacca);
  • marmellata ( nella foto albicocca).

Questo per quel che riguarda la nostra crostata con marmellata. Con aggiunta di amaretti, brandy, mandorle, uova, zucchero e marmellata di ciliegie prepariamo la crostata “Bocca di dama”, altro classico immancabile.

Ho trovato questa ricetta su un numero della Cucina Italiana del 1963, anno in cui la mia mamma collezionò e fece rilegare in due volumi i 12 numeri della rivista, volumi che hanno accompagnato come romanzi la scoperta della mia passione per la cucina quando avevo più o meno dieci anni e che conservo gelosamente, ancora scorrendoli per trovare ispirazione.

Proprio in uno di questi momenti “amarcord” degli anni ’80, durante le sperimentazione per la messa a punto della mia versione crostata, mi sono imbattuta in questa torta e l’ho adattata usando la mia variante della pasta frolla, ma seguendo la ricetta della rivista per il ripieno, con aggiunta di armelline per sottolineare meglio il sapore di mandorla e sostituendo le mandorle macinate con le mandorle a scaglie per una migliore estetica del dolce.

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Pisarei e fasö

Narra la leggenda che le suocere piacentine giudicassero le nuore dalla presenza o meno, sul loro pollice, di un “calletto” a indicare la familiarità delle stesse con il confezionamento dei tipici gnocchetti: i pisarei.

Trattasi di un formato di pasta fatta in casa con farina e pangrattato, ricetta povera, di recupero, che diventa piatto unico nell’abbinamento al suo sugo d’elezione: un umido di fagioli.

Ogni famiglia detiene la propria ricetta diversificata per le dosi, il liquido utilizzato per l’impasto, la presenza di uovo per legare, la varietà dei fagioli impiegati e gli aromi aggiunti.

Contrariamente al pensare comune, non è una piatto vegetariano: anche se non si vede, quasi sicuramente il sugo contiene grasso di maiale, in forma di lardo pestato, gola o pancetta.

Ricordi di nonna Adelina

La ricetta di famiglia, tramandatami dalla mia nonna materna Adele, prevede l’utilizzo del latte tiepido per ammollare il pane, la proporzione tra farina e pane di 3:2 e l’aggiunta di un uovo per la consistenza. Il sugo per condirli contiene pancetta coppata come parte grassa, prezzemolo e basilico come aromi, pomodori pelati spezzettati per una colorazione non eccessiva dell’intingolo. Personalmente ho sostituito il lardo pestato con olio extra vergine di oliva e gioco forza scelgo i fagioli borlotti per la mia versione della ricetta della nonna; in stagione il fagiolo borlotto di Gambolò o il fagiolo fresco, diversamente il secco.

Mia nonna coltivava da sé una varietà di fagioli che non mi è più capitato di vedere dall’infanzia: ho un ricordo vivido della sgranatura dei fagioli secchi e di lei che selezionava i migliori per utilizzarli come semente l’anno successivo. Il risultato finale del piatto ha una consistenza a metà tra una minestra e una pasta asciutta, mi piace servirla con il cucchiaio perché trovo che l’impatto gustativo sia migliore, anche se potrebbe bastare la forchetta.

Con il vino

L’abbinamento ideale è con un Gutturnio, per rispettare la regionalità, personalmente lo preferisco frizzante, trovo pulisca meglio il palato. Potendo il vino superare in forza il piatto, anche un Gutturnio fermo, magari riserva, può essere adatto.