Fino al 14 dicembre sono prenotabili le preparazioni natalizie del negozio. Per informazioni chiamare in orario di apertura il numero 348 5520539
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Bagna caoda 2022
Anche quest’anno, nella settimana dopo San Martino (11 novembre), Chez Nadi ripropone la serata della Bagna Caoda.
Per accontentare gli amici “vampiri” abbiamo studiato una versione senza aglio perché obiettivamente l’aglio è un elemento divisivo: o lo si ama, magari anche tollerando la difficile digeribilità e la tangibile capacità di trasudare da ogni poro per giorni, o lo si odia senza possibilità di appello.
La serata bagna caoda è una festa, quasi rituale, che si ripete ogni anno da noi, ampiamente antecedente la nascita dell’evento Bagna Cauda Day, e ormai si è imposta nell’immaginario degli appassionati, tanto da generare liste di attesa.
Nel periodo successivo è possibile trovare in negozio vasetti del prezioso intingolo da gestire in autonomia per prolungare il piacere di gustare, anche in modo informale e casalingo, questa specialità dalle radici antiche, legate al mondo contadino e ai ritmi della stagione.
Bagna caoda
I crismi della tradizione
Il pentolino della bagna caoda, il diàn, deve essere “collettivo”, uso di diàn individuali snatura questo rito conviviale e festoso, ma non festivo, di celebrazione della fine di intesi lavori agricoli (la vendemmia per esempio), ricementatore di amicizie trascurate per il troppo lavoro, bisboccia tra amici durante le lunghe serate autunnali ed invernali.
È vietato fare “palòt”, usare le verdure come “pala” per raccogliere dal fondo la parte piu densa e ricca di ingredienti della salsa, l’egoismo è fuori luogo, non esistono regole di precedenza: allegra confusione è d’obbiigo.
Per accompagnare le verdure intinte e sgocciolanti ci si aiuta con pezzi di pane artigianale. Le verdure devono essere pronte all’uso, pulite e ridotte a porzione: irrinunciabili i cardi gobbi di Nizza Monferrato e i peperoni quadrati di Asti, crudi i primi, crudi cotti e spellati i secondi, poi topinambur, verza, indivia, cipollotti freschi tenuti a bagno nel Barbera, tutti rigorosamente crudi; cipolle cotte al forno, rape e patate lessate.
Proibite le verdure aromatiche come sedano o finocchio. Per finire si rompe qualche uovo nell’ultimo condimento, ci si ristora con una tazza di brodo di manzo e si conclude con un pezzo di formaggio piemontese e uno zabaione.
I vini consigliati, in successione: prima una barbera dell’anno, vinosa e fresca, poi ancora barbera matura, per finire moscato.
La nostra tradizione
Fin dall’anno dell’apertura di Chez Nadi, novembre significa bagna caoda. Era già per noi un evento annuale anche prima, veniva però programmato in altri momenti, per consentire agli amici produttori di vino di parteciparvi.
Per un periodo ha rappresentato il pranzo degli auguri di Natale della condotta Slow Food Vigevano e Lomellina e si svolgeva la domenica antecedente la festività.
Nel tempo l’appuntamento si è stabilizzato nella settimana dopo San Martino (11 novembre), poiché gran parte degli ingredienti necessari alla sua preparazione sono disponibili a due manifestazioni che si svolgono a Cervere e Cherasco intorno a quella data.
La ricetta è quella di Giovanni Goria, noto gastronomo piemontese, delegato dell’accademia della cucina italiana di Asti per trent’anni.
Per accontentare gli amici “vampiri” abbiamo studiato una versione senza aglio perché obiettivamente l’aglio è un elemento divisivo: o lo si ama, magari anche tollerando la difficile digeribilità e la tangibile capacità di trasudare da ogni poro per giorni, o lo si odia senza possibilità di appello.
La serata bagna caoda è una festa, quasi rituale, che si ripete ogni anno da noi, ampiamente antecedente la nascita dell’evento Bagna Cauda Day, e ormai si è imposta nell’immaginario degli appassionati, tanto da generare liste di attesa.
Nel periodo successivo è possibile trovare in negozio vasetti del prezioso intingolo da gestire in autonomia per prolungare il piacere di gustare, anche in modo informale e casalingo, questa specialità dalle radici antiche, legate al mondo contadino e ai ritmi della stagione.
Il cibo buono e i suoi custodi
Lunedì 3 maggio alle 21:00, con Piera del Selvatico e le condotte Slow Food dell’Oltrepò e di Vigevano e Lomellina, Nadia discorrerà di cibo buono. Per assistere, è possibile seguire la diretta FaceBook sulla pagina facebook di ciascuna condotta.
La Pasta della Tradizione
La Pasta della Tradizione è una serie di lezioni di cucina online e interattive, in italiano e in inglese, nata dalla collaborazione tra Nadia Vighi di Chez Nadi e Paola Albanesi, istruttrice di cucina italiana a Seattle.
La passione per la cucina italiana è il filo che le unisce e che ha fatto scattare da subito l’intesa tra le due professioniste. La tradizione della pasta fatta in casa è vista come un’arte che va tramandata, al fine di mantenerla in vita, e ha spinto le due amiche a creare questo percorso culinario da condividere con voi. Il ciclo di tre lezioni interattive online sono acquistabili singolarmente o come serie di tre lezioni, e vi porterà a conoscere e impastare la pasta della tradizione italiana e in particolare quella romagnola.
Prima lezione – La Sfoglia Emiliana e i Ravioli di magro
Durante la prima lezione online imparerete a impastare e tirare la sfoglia bolognese interamente a mano, usando solo la tavola in legno e il mattarello, e vi forniremo suggerimenti su come utilizzare la macchina stendipasta, se preferite utilizzare questo metodo.
La sfoglia verrà tagliata in diversi formati: i tajarin piemontesi, le tagliatelle emiliane, le pappardelle toscane e i maltagliati, ideali per le zuppe autunnali. Creeremo infine dei ravioli di magro e vi dimostreremo diversi metodi di chiusura.
- Menù
- Sfoglia emiliana stesa a mano
- Tajarin, tagliatelle, pappardelle, maltagliati
- Ravioli di magro
Le lezioni dureranno 2 ore e 30 minuti e saranno online e interattive. Potrete scegliere di rilassarvi e godervi lo spettacolo, ma vi incoraggiamo vivamente a preparare gli ingredienti e gli utensili per tempo e a mettere le mani in pasta insieme a noi, per memorizzare meglio i movimenti e per potervi aiutare a risolvere dubbi e problemi che potranno presentarsi durante la lavorazione.
Vi forniremo qualche giorno prima della lezione la lista degli ingredienti e utensili necessari e la dispensa con le ricette; poco prima della lezione vi invieremo il link alla diretta Zoom.
I residenti a Vigevano e zone limitrofe avranno l’opportunità di acquistare, previa prenotazione, il kit con gli ingredienti, contenenti prodotti locali e artigianali, per preparare la pasta e farcire 4 porzioni di ravioli, da ritirare presso il negozio di Corso Torino 55/A. Il costo del kit è di 15 Euro da pagare direttamente in bottega.
I soci Slow Food Vigevano e Lomellina potranno contattare direttamente Chez Nadi per l’acquisto di un biglietto scontato.
I biglietti per l’evento, acquistabili tramite FaceBook, daranno diritto all’accesso per il collegamento alla lezione online trasmessa con Zoom, e alla dispensa con le ricette in formato PDF.
I biglietti non sono rimborsabili, ma sono trasferibili. Per garantire la massima attenzione a tutti, potremo seguire e rispondere alle domande di una persona per biglietto acquistato, con un massimo di 20 studenti per classe.
Il riso
Materia prima versatile, il riso, nelle sue diverse tipologie, è nel nostro DNA di lomellini. Parte integrante anche del nostro paesaggio, quel “mare a quadretti” che si specchia nel nostro cielo di Lombardia “così bello quando è bello” di manzoniana memoria. E Manzoni ha avuto modo sicuramente di ammirare lo spettacolo delle risaie, avendo soggiornato a Cassolnovo, dove, nella villa in cui fu ospite, gli è ancora tributata una stanza.
Principe di tutti i menù lomellini, casalinghi o professionali, non c’è ricorrenza o stagione che non abbia il suo risotto. Per non parlare delle minestre, minestrine e minestrone. È materia anche per dolci, anche se più conosciuti di quelli lomellini sono i pasticcini di riso toscani o le torte di riso emiliane.
Tipico vigevanese è un piatto né dolce né salato, che ricorda i porridge anglosassoni, il ris e latt. Ogni famiglia aveva la sua versione: la differenza stava nel pizzico di sale o di zucchero o di cannella, nella consistenza finale più o meno brodosa, nell’aggiunta di acqua al latte; variazioni che paiono banali ma che cambiano il profilo organolettico di questo comfort food prettamente serale.
Di riso si è detto e scritto parecchio, mi preme ricordare la manifestazione che si svolse a Vigevano per qualche edizione, curata da Slow Food, Rice, esperimento riuscito di mettere il riso al centro di eventi e dibattiti, non tralasciando la parte gastronomica, enoica e artistica.
Quale riso?
Fondamentale per imparare a cucinare propriamente questa risorsa è conoscerne le principali categorie, per come si comportano in cottura e per come influenzano il risultato finale. Sarebbe opportuno acquistare il riso in almeno due tipologie, partendo dal presupposto che qui vi parlo delle varietà occidentali che derivano dall’Oryza sativa subsp. japonica.
Merceologicamente, il nostro riso è suddiviso in quattro categorie in base al suo aspetto fisico, alla forma cioè dei suoi chicchi. Abbiamo riso comune, semifino, fino, superfino. Viene poi commercializzato con il nome varietale: Originario, Rosa Marchetti, Ribe, Carnaroli per esempio. Non è che non possiate usare un riso qualunque di questi per fare qualsiasi ricetta, ma ovviamente il risultato cambierà.
Mio papà, lomellino delle cascine, utilizzava l’originario, che è un riso comune, ricco di amido, per fare il risotto “della domenica” con salsiccia e zafferano. Era un risotto “fisso” il cucchiaio ci stava in piedi, ma bello sgranato e croccante, con la crosticina nella pentola “della termica”.
Da Chez Nadi il risotto cambia ogni settimana, il riso però è in prevalenza, salvo puntate sporadiche su altre varietà o produttori, il Carnaroli da Carnaroli del Pavese dell’azienda agricola Domenico e Giuseppe Carnevale Giampaolo.
Ha dimostrato nel tempo una costanza qualitativa e una resa organolettica eccellenti, con ottima tenuta in cottura e sapore pieno ma delicato che lo rende adatto a tutti gli accostamenti, dai classici agli inusuali.
È difficile in Lomellina consigliare un produttore, ognuno ha un riferimento per conoscenza diretta o magari parentela. Se non è il vostro caso, lasciate perdere il riso generico sullo scaffale del supermercato: prendetevi il tempo per visitare qualche mercatino o qualche cascina, cucinate, assaggiate e giudicate.
Cercate di capire i metodi di produzione, l’etica del produttore, visitate le risaie nelle diverse stagioni, privilegiate le coltivazioni etiche e sostenibili.
Cucinate riso più volte alla settimana, provatelo in diverse cotture valutando resa e consistenze. Abbinatelo per tradizione e sperimentate: il risotto può essere una base neutra che esalta ingredienti diversi.
Beato Matteo
Anni ’60, si avvicina la ricorrenza del Beato, protettore della città. Le giostre sono piazzate nello spazio ora occupato dal parco Parri con pozzanghere da fare invidia all’attuale laghetto se il tempo come al solito si è guastato dopo aver lasciato festeggiare l’oca ai mortaresi: non importa che tempo abbia fatto prima, dopo il Beato Matteo sui letti compaiono gioco forza le coperte di lana.
Ogni famiglia si prepara a ricevere ed ospitare amici e parenti di fuori soprattutto, le tavolate sono numerose, le incombenze domestiche altrettanto. Bisogna “vestirsi di nuovo” per la messa della domenica, bisogna preparare per le persone che si sono invitate, siamo in pieno boom economico: la tavola rispecchia l’abbondanza da poco assaporata.
Per un pranzo tipo dobbiamo prevedere: antipasto con ricco vassoio personale riempito con cura dal salumiere di fiducia con tutte le varietà di salumi cotti e crudi, salame sotto grasso, carciofini, chiodini sott’olio, acciughe e sardine, insalata russa, antipasto rosso (vedi ricetta) e patè in gelatina (Milano insegna). Segue la “rustida” che ha fatto da base per il successivo risotto: carne di maiale a fette sottili con salsiccia e fegato sempre di maiale con cipolla e pomodoro. Poi risotto appunto cotto nel sugo della medesima, poi brodo prodotto per il risotto magari arricchito da ravioli (più frequentemente riservati al pasto serale o del lunedì), lesso e gallina ripiena, poi gli arrosti, vitello o anche fagiano per le famiglie dei cacciatori, brasato e almeno due contorni uno cotto e uno crudo, bagnetto profumato di estate e del proprio orto.
Come formaggio la tachella con la mostarda, comprate entrambe “sciolte” sempre dal salumiere (il supermercato è di là da venire). Dolce finale con il cabaret di paste comprato all’uscita della messa, col torrone rigorosamente Sebaste Gallo d’Alba e la torta fatta in casa (la “varulà o marmo dolce o bianca e nera per intenderci). Il vino è quello di tutti i giorni; concessione finale di vermouth da meditazione.
Menù certo affascinante ma forse improponibile ai nostri giorni, a meno di non farne una rivisitazione drastica in termini di quantità di grassi soprattutto. Certo è che poco di questa tradizione è rimasto sulle tavole dei vigevanesi di oggi. Chi ha intorno ai trent’anni e produce da sè ravioli fatti in casa? Chi è in grado di fare sempre in casa un’insalata russa? Intendo manufacendo anche la maionese? Si acquistano già pronte persino le verdure per i contorni, figuriamoci gli arrosti!
Passando attraverso gli anni settanta con le varianti vegetariane, gli anni ottanta con la celebrazione della cucina alternativa, gli anni novanta con il culto del tutto pronto, le tradizioni culinarie si sono come dileguate. Oggi un menù tipo rifugge certamente i salumi, troppo demonizzati e troppo presenti sulle tavole in forme snaturate come i preaffettati in busta hanno più ogni altra cosa fatto il loro tempo per la maggior parte delle persone, anche se andrebbero rivalutati nelle loro espressioni migliori, pretendendo sempre una qualità eccelsa che c’è e vale la pena di cercare e di pagare il giusto.
L’antipasto potrebbe quindi essere rappresentato da una torta salata naturalmente prodotta con pasta sfoglia surgelata o al massimo conservata in atmosfera modificata, manco a pensare di fare una semplice crosta di farina, acqua e olio extra vergine di oliva, migliore, più economica e nutrizionalmente perfetta oltre che filologicamente più appropriata. Seguita da un primo al forno, potrebbe essere una lasagna classicamente prodotta se siamo fortunati da un negozio di pasta fresca o da qualche artigiano locale, o dei cannelloni o delle crepes, suggestione anni ottanta che dura a morire.
Come secondo, un arrosto arrotolato attinto dal bancone di un supermercato già legato con gli aromi inclusi (alzi la mano chi sa legare un arrosto) oppure per i più abbienti un volatile ripieno già arrostito dalla polleria. In tempi di HACCP la mostarda sfusa ha il sapore dell’alcol dei tempi del proibizionismo e la tachella si vende anche nei negozi solo confezionata in squadrati cubetti da 100 o 250 grammi, 500 grammi nei supermercati alla faccia dei single.
Sopravvive il banco del torrone alla fiera quasi immutato in quarant’anni, possiamo ancora tuffarci in quel sapore per rivivere un po’ d’antan. Se sapete fare una torta in casa – senza ricorrere alla magia 9 torte – fatela per piacere, non è poi così proibitiva, se anche saltate la messa potete acquistare i pasticcini senza neanche fare la coda che inevitabilmente si formava allora, riscattate con la scelta di vini adeguata alle vostre nuove competenze enologiche il tenore del vostro pranzo e lasciate perdere il vermouth a favore di un bicchierino di marsala metodo soleras che accompagnerà degnamente il vostro dolce.
Spero che questa mia provocazione induca più d’uno a mettere mano al menù della festa del Beato Matteo, che lo programmi e lo progetti con cura, con un occhio alla tradizione ed uno alla leggerezza, con l’accortezza di scegliere solo materie prime di altissima e riconosciuta qualità, pensando che comunque chi più spende meno spende, nulla è troppo per il nostro benessere, siamo quello che mangiamo, vogliamo essere una torta salata dal ripieno schizofrenico o una fetta di culatello?
Antipasto rosso
- 300 g di giardiniera di verdure miste ridotta a cubetti
- 200 g tonno sott’olio
- 2 cucchiai di doppio concentrato di pomodoro
- 1 bustina di droghe miste (tipo Saporita Bertolini)
- Olio extra vergine di oliva quanto basta
Mescolare tutti gli ingredienti il giorno prima e gustare in accompagnamento ai salumi.
Zucca Bertagnina di Dorno
La zucca Bertagnina di Dorno è una DeCo presente anche nell’arca dei prodotti Slow Food.
I terreni di questa zona sono particolarmente vocati alla produzione di questo ortaggio e la varietà è ben riconoscibile per la caratteristica forma a “berretto”.
Presente da sempre negli orti casalinghi, deve la sua sopravvivenza all’ostinazione di privati che ne possedevano i semi. Dal 2004 è oggetto di un progetto di recupero che ha portato alla costituzione di un consorzio. Annualmente é protagonista di una sagra giunta alla 16 edizione nel 2019. È stata inserita nel paniere Pavese e nell’arca dei prodotti Slow Food.
Versatile e nutriente, si presta alla realizzazione di ricette dolci e salate dalle più tradizionali alle più innovative. È materia prima per risotti (sola o in abbinamento ad altri vegetali quali i funghi, ai formaggi, alle erbe aromatiche o alle spezie), creme, vellutate, zuppe, tortelli, gnocchi, malfatti, torte dolci e salate.
Si possono anche preparare composte dolci o salate, lievitati da forno, pane e birra.
La stagionalità della Zucca Bertagnina di Dorno va da settembre a dicembre come tradizione vuole. Tuttavia, gli esemplari migliori si trovano a inizio stagione e hanno pezzatura medio grande. Sceglietele pesanti, col picciolo grande, saldo, ben asciutto e facile da far “saltare” con un colpo di mano.
La zucca va poi tagliata e privata dei semi e della polpa morbida che li avvolge. I semi possono essere consumati tostati in forno e salati, da sgranocchiare come snack. Privati della buccia esterna si possono aggiungere come guarnizione a numerose ricette.
Per preparare passati e zuppe o per farla al forno si può lasciare la buccia avendo cura di lavarla bene, oppure va pelata. Per farlo più facilmente si può farla girare nel microonde a pezzi per un paio di minuti alla massima potenza. Una volta ammorbidita l’operazione risulterà più agevole.
Conservate le vostre zucche intere in un luogo asciutto e buio. Una volta tagliate, potete conservare la parte che non utilizzate immediatamente in frigorifero, proteggendo il taglio. Attenzione ad utilizzarla entro due o tre giorni. Se pensate di non riuscire entro questi tempi, potete prepararla tutta, anche se grossa. Con o senza buccia, come preferite, tagliatela a pezzetti o a fette. Fate poi congelare in freezer distesa su vassoi protetti da carta da forno. Una volta congelata potrete raggrupparla in sacchetti appositi e tenerla nel vostro freezer. Al bisogno, senza scongelarla, avrete a disposizione la vostra zucca già pronta.
Potete anche cucinarla con un goccio d’olio, sale e pepe, usando il coperchio per mantenerla umida, per una ventina di minuti. Quando sarà morbida alla penetrazione dei rebbi della forchetta spegnete il fuoco e passatela con il frullatore ad immersione o schiacciatela con lo schiacciapatate.
La purè ottenuta potrà essere base per diverse ricette e potrete anche congelarne a porzioni per un utilizzo futuro. Con questo lavoro preventivo sarà facile cucinare una crema o dei malfatti o una torta (salata o dolce).
Per il risotto preferisco utilizzare dei cubetti crudi di zucca da aggiungere interi al soffritto di scalogno (potete qui utilizzare i vostri cubetti congelati), proseguo poi con la tostatura del riso. Bagno con brodo vegetale, due mestoli per ogni etto di riso. Lascio sobbollire mescolando ogni tanto ed aggiungendo brodo se si asciuga troppo. E’ un risotto da tenere morbido, all’onda, mantecandolo fuori dal fuoco con burro di ottima qualità e Parmigiano Reggiano di buona stagionatura.
La burtleina
Ricordo mia nonna che, per fare la burtleina, impastava un pugno di farina con un uovo, un pizzico di sale e del latte fino ad ottenere una pastella fluida. Metteva sul fornello una padella con olio e vi colava dentro quest’impasto che si distribuiva uniformemente da solo coprendone l’intero fondo, friggendo ai lati fino a imbiondire. A quel punto la girava, aiutandosi con due forchette, la faceva dorare anche all’altro lato, e pochi minuti dopo la scolava dall’unto in eccesso e la metteva in tavola. Per accompagnare fette di coppa, tagliate con la “coltella” o il formaggio che lei stessa preparava, quello meno stagionato, più morbido.
Da piccina ho trascorso un intero inverno ospite dei miei nonni materni a Campostrino di Rustigazzo, in Val d’Arda, provincia di Piacenza. Ricordo che la nonna panificava ogni quindici giorni, producendo una decina di “micche” alla volta. Il giorno in cui le faceva si mangiava il “chisolino”, una pagnotta che appiattiva e cuoceva sul davanti del forno. Quando lo apriva la prima volta per controllare e girare il pane, sfornava quella specie di focaccia che, essendo più bassa, era già cotta ed era la prima ad essere gustata. Le micche venivano conservate in un cesto di vimini, protette da una tovaglia e consumate giorno per giorno, via via sempre più dure.
Quando si avvicinava la data della successiva panificazione, il pane si poteva mangiare solo a quadrotti nel caffelatte della colazione, oppure a fette, bagnato nell’acqua e abbrustolito sulla piastra della stufa a legna o ancora nel brodo, bollito fino a diventare una pappa. In alternativa, la nonna preparava la burtleina, che sostituiva appunto il pane.
Spesso la ripropongo in accompagnamento a salumi piacentini o formaggio fresco tipo robiola o crescenza; ha il sapore dell’infanzia, delle radici, della mia nonna.
I nostri pomodori
Nel piccolo giardino di casa, nel corso degli anni, l’orto ha strappato terreno al cemento e alle poche piante originarie si sono aggiunte erbe aromatiche, frutti di bosco, fiori e, nel periodo estivo, pomodori. Non una vera e propria produzione, dati gli spazi ristretti e inospitali, quanto un divertimento per il piacere di vedere le piantine crescere, fiorire e dare i loro frutti.
Arrivati dalle Americhe meno di 600 anni fa e inizialmente coltivati soltanto a scopo ornamentale, i pomodori sono ormai diventati il simbolo della cucina mediterranea e in particolare un pilastro di quella italiana. Dalla semplice salsa di pomodoro, passando per l’insalata caprese, le ricette regionali (si pensi alla pappa o la panzanella toscane), i sughi rossi, fino a sperimentazioni come gelatine, sorbetti o confit.
Il piacere di gustare i pomodori caldi di sole in insalata o su una bruschetta ripaga generosamente del piccolo impegno preso in primavera. Vale la pena in stagione, oltre ovviamente a consumarli freschi, di prepararne una salsa da conservare per il resto dell’anno: indicativamente, per una porzione di salsa occorrono 250 g di pomodoro crudo.
Non è necessario cimentarsi nella produzione di quintali di pomodoro in una sola volta, potete agevolmente durante l’estate fate la vostra salsa lavorando quattro, massimo cinque chilogrammi per volta. Oltre ad avere un ottimo sugo fresco da gustare al momento, produrrete così qualche vasetto in più per le vostre ricette invernali.
La salsa
Tagliate i pomodori a metà e privateli della parte bianca all’apice, sciacciateli per eliminare in parte l’acqua interna e i semini e metteteli in pentola con sedano, carota, cipolla e basilico. Mettete sul fuoco condendo con olio extra vergine di oliva, sale grosso e un pizzico di pepe. Portate ad ebollizione e cuocete per almeno un’ora, mescolando per evitare che attacchi sul fondo della pentola. Se i pomodori fanno tanta acqua proseguite la cottura per farla evaporare. Passate al passaverdura ed ecco pronta la base del vostro sugo di pomodoro, basterà ripassarlo in padella con oevo aromatizzato con uno spicchio di aglio, peperoncino, se gradito, e un poco di basilico fresco.
L’eccedenza potrà essere conservata in barattoli sterilizzati, con l’aggiunta di una foglia di basilico per ognuno, fatti poi bollire per venti minuti per una migliore durata nel tempo. Potrete così conservarli in luogo buio, fresco ed asciutto per l’inverno.
Ripetendo questa micro produzione più volte durante l’estate, variando e miscelando le tipologie di pomodoro che riuscirete a reperire, creerete una scorta variegata di basi per le vostre ricette invernali. Nell’attesa che ritorni la stagione, avrete a disposizione il sapore e il colore dell’estate.
Curiosità
Avrete sentito dire almeno una volta che “il pomodoro è un frutto, non una verdura”. Come molte bufale virali, questa frase non è completamente falsa, ma contiene una mezza verità: come spiega in questo video il chimico e divulgatore Dario Bressanini, è vero che botanicamente quello che mangiamo della pianta di pomodori è il frutto. Allo stesso modo usiamo in cucina il frutto di zucche e zucchine, le radici delle carote o i semi dei fagioli. La nozione di verdura non è però botanica: è una nozione culturale, basata sulle nostre abitudini alimentari, e per questo varie parti di varie piante possono tutte rientrare nella categoria di verdura se sono accomunate da caratteristiche organolettiche, abitudini culinarie e percezione culturale.